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Io ho conosciuto Miéville con Perdido Street Station quasi dieci anni fa, e l’ho amato alla follia. Ricordo che saltavo lezioni universitarie (quando ancora credevo di dover frequentare per studiare meglio, ma questa è un’altra storia) per continuare a leggere, o che leggevo direttamente a lezione, a volte proprio sotto gli occhi perplessi (e incuriositi) dei professori. Quando ho visto L’uomo del censimento, quindi, non sono riuscita a trattenermi – né l’ho poi voluto – e l’ho preso senza pensarci troppo.
La trama è quasi indescrivibile senza rovinarla: siamo in un mondo simile al nostro; protagonista è un ragazzino che vive in una casa isolata con mamma e papà. Il narratore è il ragazzino stesso, ormai adulto, che ha intrapreso una qualche attività di cui non riusciamo a cogliere i dettagli. Il padre del ragazzino è uno strano personaggio che fa cose altrettanto strane, alcune inquietanti altre ammalianti (di lavoro crea chiavi che possono fare qualsiasi cosa).
L’ambientazione non si può definire pienamente distopica, ma vi si avvicina. Le domande sollevate sono molto più numerose delle risposte. Le suggestioni offerte, ancora più numerose. Insomma, è un romanzo che può infastidire molto chi cerca una chiusura finale, una vera risoluzione, con spiegazione di tutti gli enigmi, ma è un libro affascinante in modo assurdo, coinvolgente, ipnotico.
Miéville sa giocare con le parole come pochi (e la traduttrice ha fatto un lavoro esemplare), con piccoli accorgimenti trascina nella storia e crea il mondo attorno al lettore, che sarà demoralizzato, speranzoso, terrorizzato assieme al protagonista. Ècomplice il fatto che il mondo del libro sembra arrivarci attraverso uno specchio deformato che riflette la nostra realtà, che quindi riconosciamo ma non del tutto, non perfettamente, con pochi piccoli particolari che bastano a farci sentire disorientati, buttati lì dall’autore con tanta noncuranza da farci quasi dubitare che, in realtà, sia quello il reale, e noi non l’avessimo (non l’abbiamo?), semplicemente, mai scoperto.